L’automotive faccia attenzione a cosa sta succedendo all’industria cinese
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C’è stato un momento in cui sembrava che il dominio cinese fosse inevitabile. Oggi quella certezza vacilla, forse. Il PIL decresce, la disoccupazione giovanile aumenta, le politiche zero-Covid vanno strette ad un Paese che cerca di tenere il passo con le aspettative del Partito. E l’automotive è al centro di tutto.
In questo articolo
La seconda economia del mondo scricchiola, forse. In Cina la crescita è in stallo, la disoccupazione giovanile a livelli record, il mercato immobiliare è crollato e le aziende, con difficoltà, dopo anni di investimenti nel Paese, stanno iniziando ad allontanarsi dal dragone.
BLOCCATI DALLA POLITICA ZERO-COVID
Dopo più di due anni dall’inizio della pandemia, Pechino si attiene al suo approccio estremo al virus, la politica zero-Covid. Le scelte di Xi Jinping hanno però dimostrato un’atteggiamento intransigente del Partito, disposto a tutto per mantenere intatta la propria legittimità.
Il sentimento comune, dentro e fuori la Cina, è che non potremo assistere ad un ammorbidimento delle regole prima del 2023, quando il futuro politico di Xi sarà assicurato (in ottobre il ventesimo Congresso del Pcc ha riconfermato il terzo mandato del leader, non senza proteste).
E al continuo stop & go della produzione si unisce il rallentamento dell’economia globale, che porterà, con ogni probabilità, ad un indebolimento della domanda da parte dei mercati statunitense ed europeo.
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IL PIL IN PICCHIATA
Che un’economia emergente riduca il tasso di crescita è normale, ma le politiche del Partito potrebbero aver accelerato la tendenza. “La riduzione strutturale del tasso di crescita era già iniziata almeno dal 2014. E infatti il Partito ha ammesso di aver rivisto i dati all’insù per anni, perché non è pronto politicamente ad accettare la decrescita”, ci spiega Alessia Amighini, Professore associato dell’Università del Piemonte Orientale – Department of Economics and Business e Co-Head of Asia Centre and Associate Senior Research Fellow, ISPI.
Se all’inizio dell’anno l’obiettivo ufficiale di Pechino rispetto al PIL era una crescita del 5,5%, con un ampio margine, oggi gli analisti sono più ribassisti. Nomura a settembre ha tagliato le sue previsioni al 2,7%, a ottobre la World Bank è passata dal 5 al 2,8%, Goldman Sachs e Standard Chartered rispettivamente al 3 e 3,3%, lo stesso il Fondo Monetario Internazionale.
Xi ha quindi approvato una serie di misure di stimolo per rilanciare l’economia e un pacchetto da un trilione di yuan (circa 128 miliardi di euro), che dovrebbe sostenere infrastrutture e approvvigionamento energetico. Insufficiente, secondo Amighini.
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È SCOPPIATA LA BOLLA IMMOBILIARE
Altro grande ostacolo è la paralisi del settore immobiliare, che rappresenta oggi circa il 30% del Pil. Nel 2020 una campagna governativa con l’obiettivo di frenare i prestiti sconsiderati e il commercio speculativo ha fatto crollare i prezzi degli immobili, bloccato la vendita di nuove case.
Sono migliaia i palazzi non finiti e i cittadini, che hanno versato anticipi per una nuova casa, ora rifiutano di pagare le rate. Secondo Standard & Poor’s i prestiti non saldati raggiungano i 145 miliardi di dollari. Ma chi pagherà il conto?
“Sono tante le imprese esposte sul mercato cinese, sia sul fronte dei fornitori che su quello della domanda – ci spiega Amighini – Io non vorrei essere nei loro panni. Quello che temo è che dovendo scegliere, mettendomi nei panni del governo cinese, faranno pagare di più le aziende straniere, costa di meno”.
LA DISOCCUPAZIONE AI MASSIMI STORICI
Il tasso di disoccupazione della fascia 16-24 anni, poi, ha raggiunto il massimo storico del 19,9% a luglio, battendo i record negativi “conquistati” nei tre mesi precedenti. Numeri alla mano, oggi ci sarebbero 21 milioni di giovani senza lavoro, in un Paese nel quale la disoccupazione rurale non è nemmeno inclusa nei dati ufficiali. Le previsioni per i prossimi mesi raggiungono, e superano, il 20%.
Una variabile da non sottovalutare, sottolinea anche la professoressa Amighini: “Li spaventa. La disoccupazione giovanile è pericolosa perché i giovani non hanno il sentimento di affezione [al Patito, ndr] di quelli più anziani”.
LA MURAGLIA HA PERSO APPEAL
“Il vantaggio competitivo della Cina è venuto a scadere: non hanno più prezzi così bassi – spiega Amighini – Hanno deflazionato il mondo fino a qualche anno fa, adesso stanno inflazionato. Questa grande forza dell’export è a scadenza”.
E se le esportazioni cinesi stanno rallentando, toccando il tasso di crescita più basso dal giungo 2020, solo +0,18% (dati Wind Information), la World Bank ha invece ritoccato al rialzo le sue previsioni per il resto dell’Asia orientale in via di sviluppo e del Pacifico per il 2022: dal 4,8% al 5,3%.
Ad emergere è il Vietnam per la manifattura: +19,1% di export su base annua e secondo S&P Global Ratings le aspettative di crescita sono avanzate al 7,2% dal 5,3. Poi c’è l’India per i macchinari. “Non vorrei però che finissimo dalla padella alla brace. L’India è un mercato grande, già in crescerà e che crescerà molto più della Cina. Ma non è chiaro quanto l’India si aprirà dal punto di vista commerciale al resto del mondo. È un attore un po’ fumoso. Certo, sempre meno della Cina”, sottolinea da professoressa Alessia Amighini.
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LE BIG TECH SE NE VANNO
La capacità attrattiva dell’economia cinese si è inevitabilmente logorata: il Paese rimane centrale nelle catene globali di creazione del valore, ma sono diverse le multinazionali che hanno già iniziato a spostare la produzione.
A cominciare dalle Big Tech. Apple ha portato in Vietnam la produzione di iWatch, AirPod, iPad e a breve sarà la volta del nuovo iPhone. Lo stesso Microsoft per Xbox e gli smartphone Google. All’India, invece, sono affidati i dispositivi Fire Tv di Amazon.
E anche i titani cinesi arrancano: le vendite di Alibaba sono crollate per la prima volta quest’anno con profitti dimezzati del 50%, così come quelli di Tencent’s.
SI SPENGONO I MOTORI?
“L’automotive potrà essere uno dei protagonisti di questa svolta”, conferma Amighini. Il trasferimento immediato degli hub di produzione offshore non sembra percorribile, è invece probabile che le Case auto straniere si muovano nella direzione di realizzare una catena di approvvigionamento separata, che riduca la dipendenza dalla Cina.
Ai produttori giapponesi Tokyo ha proposto incentivi per riportare a casa la produzione. E Mazda Motor Corporation ha chiesto ai propri produttori di rafforzare l’approvvigionamento interno e diversificare.
C’è poi la nostrana Stellantis che, per dirla con le parole del Ceo del Gruppo Carlos Tavares, è preoccupata per le ingerenze di Pechino: “C’è una chiara politicizzazione del clima imprenditoriale in Cina da almeno quattro o cinque anni”. Riferendosi, forse, anche alla fine della joint vendute per la produzione di Jeep con il gruppo Gac.
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Le camere di commercio di Usa e Ue intanto sono attente, preoccupate dall’attenzione straordinaria che il Partito riserva alle grandi aziende private. E gli investitori stanno agendo: la giapponese Softbank ha ritirato parecchia della sua esposizione in Alibaba, e Warren Buffet, attraverso la sua Berkshire Hathaway, sta vendendo le sue quote in BYD. Un nome noto, no? Dovrebbe, perché produce auto elettriche.
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